Ogni anno, la domenica fra l’ottava di Natale si celebra la festa della Santa Famiglia di Nazareth. Santa non perché è perfetta, ma perché abitata da “colui che è Santo“, Gesù, il Figlio Benedetto del Padre. Il prefazio del rito ambrosiano per questa festa così fa pregare: “Il tuo unico Figlio, volendo assumere la nostra condizione di uomini, volle far parte di una famiglia per esaltare la bellezza dell’ordine da te creato e riportare la vita familiare alla dignità alta e pura della sua origine”.
La liturgia di questo anno ci propone tre testi biblici attraversati da un leitmotiv, quello del figlio. Nella pagina evangelica Maria e Giuseppe sono chiamati a vivere ancora una volta una profonda conversione: riconoscere che quel figlio, di cui sono custodi e responsabili, deve occuparsi “delle cose del Padre“ suo. Quel figlio, cioè, ha una missione che supera i loro calcoli, i loro progetti, i loro desideri, una missione che dipende dal fatto che egli appartiene ad un Altro, a Dio, egli è “nelle cose del Padre“, ha un’identità profonda, divina. Essi non compresero fino in fondo il senso di quanto Gesù diceva loro, ma si fidarono del figlio e di Colui al quale il figlio era ed è legato intimamente. L’atteggiamento di Maria e Giuseppe è come sempre esemplare: la fiducia in Dio e nei suoi progetti, anche quando non tutto si capisce.
La prima lettura, poi, ci ripropone il testo di Anna e Samuele: ella porta suo figlio al tempio di Silo per lasciare che “il Signore lo richieda“, quel figlio che ella tanto aveva desiderato e invocato da Dio nel tempo della sua sterilità. Anna consegna al Signore il figlio, perché è consapevole che quel figlio è un dono di Dio, non le appartiene; lo ha ricevuto con immensa gioia, ma non pretende di tenerlo per sé, è disponibile a concederlo al Signore. il figlio è un dono e i genitori sono chiamati a restituire al Signore e alla vita questo dono. Il grande poeta Gibran lo dice con una efficacia incomparabile: «I vostri figli non sono figli vostri… sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita. Nascono per mezzo di voi, ma non da voi. Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono. Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee. Potete dare una casa al loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita la casa dell’avvenire che voi non potete visitare nemmeno nei vostri sogni. Potete sforzarvi di tenere il loro passo, ma non pretendere di renderli simili a voi, perché la vita non torna indietro, né può fermarsi a ieri. Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti. L’Arciere mira al bersaglio sul sentiero dell’infinito e vi tiene tesi con tutto il suo vigore affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane. Lasciatevi tendere con gioia nelle mani dell’Arciere, poiché egli ama in egual misura e le frecce che volano e l’arco che rimane saldo».
Il testo della seconda lettura, infine, ci ricorda che tutti siamo stati resi figli per mezzo del Figlio. Non tutti siamo genitori, ma proprio tutti siamo figli. Ed è proprio questa dimensione della figliolanza che vogliamo vivere, per cui ringraziare e farla diventare dono.